LA CORTE DI APPELLO

    Riunita in Camera di consiglio, ha emesso la seguente ordinanza.
    Nel  processo  a  carico di Woodrow M. Elena, nata a Palermo il 6
febbraio  1948,  La  Loggia  Enrico, nato ad Agrigento il 25 febbraio
1947  e  Giorgianni  Vittorio,  nato  a  Palermo  il  26 giugno 1941,
definito  con  sentenza  emessa  dal  Tribunale  di Trapani - Sezione
distaccata di Alcamo, in data 15 luglio 2004, con la quale i predetti
imputati sono stati assolti dalla contravvenzione di cui all'art. 20,
lett. c), legge n. 47/1985 loro ascritta al capo A) ed i soli Woodrow
e  La  Loggia anche dalla contravvenzione di cui all'art. 163, d.lgs.
n. 490/1999,   loro   ascritta  la  capo  B)  perche'  il  fatto  non
costituisce reato;
    Preso  atto dell'appello ritualmente e tempestivamente interposto
avverso  la predetta sentenza dal Procuratore della Repubblica presso
il  Tribunale  di  Trapani,  che  ha  richiesto  l'affermazione della
colpevolezza  degli  imputati  in ordine ai detti reati e la condanna
degli stessi alle pene di legge;
    Rilevato  che  all'udienza  odierna  il  procuratore  generale ha
sollevato  eccezione di illegittimita' costituzionale degli artt. 1 e
10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 per violazione degli artt. 3 e
111  secondo  comma Cost.; 3 e 112 Cost. in relazione agli artt. 73 e
74  ord. giud.; 97 Cost.; 3, 111, 101 e 104 Cost.; 111, settimo comma
Cost.;
    Sentito   il   difensore  degli  imputati  che  ha  controdedotto
opponendosi all'eccezione sollevata dal p.g., ritenendola infondata e
chiedendo dichiararsi l'inammissibilita' dell'appello;

                            O s s e r v a

    Questa  Corte  e'  chiamata  a  pronunciarsi  sulla manifesta non
infondatezza  della  questione di compatibilita' costituzionale degli
artt. 1  e  10  della  legge  20 febbraio 2006, n. 46, che ha, tra le
altre, modificato la disposizione di cui all'art. 593, comma 1 c.p.p.
prevedendo   la  possibilita'  dell'appello  da  parte  del  pubblico
ministero e dell'imputato soltanto avverso le sentenze di condanna.
      Piu'  specificamente, le norme che si assumono incostituzionali
attengono,  quanto alla prima di esse (art. 593 codice di rito), alla
limitazione  del  potere  di  appello  del pubblico ministero, adesso
circoscritto   alle   sole   sentenze  di  condanna;  alla  residuale
possibilita'  di  esercitare  siffatto potere soltanto in presenza di
una  prova  decisiva  da  articolare ed assumere secondo le modalita'
indicate  nell'art. 603,  comma  2  c.p.p.;  alla declaratoria in via
preliminare  di  inammissibilita' dell'appello con ordinanza da parte
del  giudice, ove non venga disposta la rinnovazione del dibattimento
ed  alla  correlata possibilita' - per le parti - di proporre ricorso
per  cassazione  contro  la  sentenza  di  primo grado nel termine di
giorni  quarantacinque decorrente dalla notificazione della ordinanza
di inammissibilita' dell'appello.
    Quanto  alla  seconda,  la  norma  si  riferisce  alla disciplina
transitoria  che  prevede  l'applicabilita' delle disposizioni di cui
sopra  ai  procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della
novella modificatrice.
    Un  primo preliminare esame riguarda la rilevanza delle questioni
proposte:
     rilevanza nel caso in esame pacificamente sussistente, posto che
non  essendo  state  dedotte da parte del p.m. appellante prove nuove
sopravvenute  nei  limiti  temporali  previsti  per  la  proposizione
dell'appello  e  trovando applicazione - per effetto della disciplina
transitoria  -  la previsione normativa di cui all'art. 1 della legge
n. 46/2006,    ne    deriverebbe    la    necessaria   pronuncia   di
inammissibilita'  dell'appello ai sensi dei commi 2 e 3 dell'art. 10,
in   relazione   alla  previsione  di  carattere  generale  contenuta
nell'art. 593,  secondo  comma  c.p.p. non potendo, peraltro, trovare
applicazione  nel caso in esame, in assenza di specifico richiamo, il
disposto  del  novellato art. 580 c.p.p. prima che sia stato percorso
l'intero iter procedimentale descritto dalla norma transitoria.
    E   in   ogni   caso  l'applicazione  dell'art. 580,  c.p.p.  non
eliminerebbe  i  sospetti  di  incostituzionalita' rimanendo comunque
preclusa al p.m. la possibilita' di prospettare motivi di merito.
    La rilevanza della questione appare evidente poiche' si tratta di
una  diversa  disciplina  del  presente  processo  conclusosi con una
sentenza  di  assoluzione  per  l'imputato  in  virtu' della quale il
pubblico  ministero  appellante,  per  un  verso vedrebbe precluso il
proprio  potere  di  appello e, per altro verso, sarebbe costretto in
tempi  peraltro  assai  ristretti,  a proporre ricorso per cassazione
avverso la sentenza di primo grado.
    Tanto  premesso,  ritiene la Corte di dovere fare una ulteriore e
preliminare, puntualizzazione, propedeutica all'esame delle eccezioni
sollevate dal procuratore generale.
    Secondo  le indicazioni contenute nell'art. 134 Cost., e' rimessa
alla   Corte   costituzionale   la  risoluzione  delle  questioni  di
legittimita'  costituzionale di leggi (o atti ad essa equiparati) che
siano  state  sollevate di ufficio ovvero eccepite da una delle parti
nel  corso  del  giudizio,  con  l'unico,  preclusivo  limite,  della
eventuale   manifesta  infondatezza  delle  questioni,  ritenuta  dal
giudice.
    E'   dunque  evidente  che  nel  caso  della  proposizione  della
questione  di  legittimita'  costituzionale competa al giudice che ne
sia  investito  da  una delle parti, effettuare una prima valutazione
della  rilevanza  della  questione  e  della  sua eventuale manifesta
infondatezza  in  stretta sequenza temporale e logica, nel senso che,
una  volta positivamente risolto il problema concernente la rilevanza
della  questione,  dovra' essere affrontato il problema relativo alla
eventuale manifesta infondatezza di essa.
    Tale  ultimo  esame  non  implica,  tuttavia, ad avviso di questa
Corte,  un'analisi  approfondita e particolareggiata dei vari profili
di  illegittimita' prospettati, nel caso in esame, peraltro, non solo
numerosi,  ma  soprattutto  complessi  ed estremamente articolati: se
cosi'  operasse,  la  Corte  finirebbe  con  il  travalicare i propri
compiti,  interferendo sui compiti propri della Corte costituzionale,
unico  giudice  deputato - per legge costituzionale (art. 134 cit.) -
ad  esprimere il richiesto giudizio di legittimita' costituzionale di
quelle norme che si assumono violate.
    Siffatta soluzione attribuisce al giudice chiamato ad operare una
valutazione  per  cosi'  dire  «preliminare»,  il doveroso compito di
rimettere  alla  Corte  costituzionale  unicamente  la risoluzione di
quelle   questioni   che,   oltre  ad  essere  rilevanti,  non  siano
manifestamente  infondate,  intendendosi con tale ultima espressione,
l'insussistenza  o  la mera apparenza, dei dubbi di costituzionalita'
prospettati dalle parti.
    Nel  caso  in  esame,  questa  Corte,  attesi  i  profili, invero
complessi  e tra loro intimamente collegati, delle questioni proposte
dal  procuratore  generale,  ritiene  le  stesse  non  manifestamente
infondate alla luce delle seguenti considerazioni.
    Una   prima   questione   concerne   la  presunta  illegittimita'
costituzionale    dell'art. 1   della   legge   in   esame   rispetto
all'art. 111,  secondo  comma della Costituzione, a tenore del quale,
il  processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni
di  parita',  davanti  ad  un  giudice  terzo  e  imparziale, con una
ragionevole durata assicurata dalla legge.
    Ritiene  la  Corte  che  i  rilievi  prospettati  dal procuratore
generale  non  solo con riferimento all'art. 111 sopra richiamato, ma
anche   con   riguardo   all'art. 3   Cost.,   siano   meritevoli  di
considerazione,  profilandosi  -  per  un  verso - una ingiustificata
compressione della parita' delle parti nel processo, che va inteso in
una  accezione  ampia,  comprensiva  anche delle fasi successive alle
indagini  preliminari,  sino alla sua completa definizione; per altro
verso, profilandosi una irragionevole disparita' tra la posizione del
p.m.  e  quella dell'imputato, solo apparentemente superata dal nuovo
testo normativo.
    Infatti,   quanto   al  significato  da  attribuire  alla  parola
«processo»,   e'  evidente  che  la  Costituzione  intende  riferirsi
all'intero percorso che dalla notitia criminis perviene alla sentenza
definitiva, in armonia con quanto previsto all'art. 24, secondo comma
Cost.
    Ora,  a  fronte  del legittimo potere riconosciuto all'imputato e
costituzionalmente  tutelato  ex  art. 24  Cost.,  di  esercizio  del
proprio diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, non
vi  e'  dubbio  che anche il p.m. e' chiamato a esercitare la propria
pretesa  punitiva  in  ossequio  al  principio  della obbligatorieta'
dell'azione  penale  (garantita attraverso l'art. 112 Cost.), al fine
di  vedere  affermata la responsabilita' penale di colui che e' stato
assoggetto al processo.
    Trattasi   di  una  pretesa  punitiva  di  rango  costituzionale,
riconoscendosi  in  capo  al p.m. la funzione di Organo preposto alla
realizzazione  degli  interessi  generali  della  giustizia, come del
resto, previsto dagli artt. 73 e 74 ord. giud..
    Ora,  se e' indubitabile che la previsione di limiti al potere di
impugnazione  del  p.m. non e', di per se', in contrasto con la Carta
fondamentale   (tanto   e'   vero   che,   in  tema  di  sentenze  di
proscioglimento  a  seguito  di giudizio abbreviato, tali limiti sono
stati ritenuti compatibili con il dettato costituzionale - da ultimo,
ord.  Corte  cost.  n. 421/2001), e' tuttavia da rilevare come tra la
speciale  disciplina  prevista  in  materia  di  giudizio  abbreviato
(dettata  anche  da evidenti ragioni di prevista politica giudiziaria
sottese  alla  premialita' del rito) e quella oggi prevista dal nuovo
art. 593 c.p.p., vi siano sensibili differenze.
    Manca,   infatti,   in   quest'ultimo   caso   qualsiasi  ragione
giustificativa  per  una limitazione del potere di appello, avvertita
dallo  stesso  Presidente  della  Repubblica nel suo messaggio del 20
gennaio  2006  con  il  quale era stata rinviata alle Camere la prima
stesura della legge.
    Il  Presidente della Repubblica aveva, infatti, segnalato che «la
soppressione  dell'appello delle sentenze di proscioglimento, a causa
della  disorganicita'  della  riforma, fa si' che la stessa posizione
delle  parti  nel  processo  venga  ad  assumere  una  condizione  di
disparita'  che  supera  quella  compatibile  con la diversita' delle
funzioni svolte dalle parti stesse nel processo».
    Ne'  l'inconveniente risulta eliminato attraverso la formulazione
del  comma  2  dell'art. 593  c.p.p.  che  prevede la possibilita' di
appello  per  il  p.m.  a  condizione  che  venga  indicata una prova
sopravvenuta rispetto alla fase precedente: trattasi, infatti, di una
ipotesi  del  tutto residuale e marginale che di fatto rende la norma
sostanzialmente  identica a quella gia' oggetto dei rilievi formulati
dal Presidente della Repubblica.
      L'irragionevolezza della norma, peraltro, si coglie appieno la'
dove   si  consideri  che,  partendo  dalla  premessa  che  l'appello
rappresenta  una  forma  di  garanzia contro gli errori contenuti nel
giudizio  di  primo  grado,  la limitazione di esso ad una sola delle
parti  impedisce di pervenire al risultato della decisione giusta cui
mira qualsiasi processo.
    Senza   dire  che  apparirebbero  sostanzialmente  vanificate  le
funzioni  di rilievo costituzionale del p.m. come risultano delineate
dagli artt. 73 e 74 ord. giud.
      Ritiene,  ancora,  la  Corte  di  poter  affermare,  rebus  sic
stantibus,  anche  la violazione del principio di ragionevolezza, dal
momento  che non e' dato comprendere in base a quale criterio al p.m.
e'  dato  appellare  sentenze  di  condanna,  se ritenute troppo miti
rispetto  alla  gravita'  del  fatto  e non e' dato appellare avverso
sentenze di assoluzione del tutto incoerenti rispetto alle risultanze
processuali.
      Pur dovendosi ribadire che, a differenza di quanto previsto per
l'imputato,  il  diritto  del  p.m.  ad una revisione di merito della
decisione   non   trovi  una  diretta  copertura  costituzionale,  e'
innegabile  che  un sistema che preveda lo svolgimento di un processo
giusto - come tale previsto dalla Costituzione all'art. 111 nella sua
interezza   -   contempli   la   possibilita'   che  anche  il  p.m.,
nell'interesse  superiore  della  giustizia, veda riconosciuto il suo
potere di interloquire sempre nel processo fino alla sua conclusione,
passando  attraverso  una  revisione  critica  degli errori contenuti
nella   sentenza,   non   necessariamente  circoscritti  ai  vizi  di
legittimita' indicati nell'art. 606 c.p.p.
    Questione di non poco momento e' poi quella afferente il rapporto
-  che  si  assume  violato - tra l'art. 1 della legge in argomento e
l'art. 111, commi primo, sesto e settimo Cost.
    In  conseguenza delle modifiche apportate con tale legge, risulta
notevolmente  ed  irragionevolmente  estesa  l'area  del  giudizio di
merito   della   Cassazione,   trasformata   quindi   da  giudice  di
legittimita', (anche) a giudice di merito.
    A  norma  dell'art. 111,  settimo  comma  Cost. e' sempre ammesso
ricorso  avverso  le  sentenze ed i provvedimenti adottati in tema di
liberta'  personale, davanti la Corte di cassazione per violazione di
legge: e' dunque evidente che l'intero sistema processuale si e' fino
a  questo  momento  poggiato  sul c.d. «doppio giudizio di merito» da
parte  di  un giudice di' primo grado e, di seguito, di un giudice di
secondo  grado,  mentre  alla  Corte  di  cassazione  e'  rimesso  il
delicatissimo  compito  di  riesaminare  il  processo  solo nei casi,
tassativamente determinati, di violazione di legge.
    Tale  compito,  correlato  all'obbligo di motivazione di tutti in
provvedimenti    giurisdiziona1i    contemplato   nel   sesto   comma
dell'art. 111  Cost.,  finisce con l'essere vanificato per effetto di
una  riforma  che  introduce tra i vizi ricorribili per cassazione il
travisamento del fatto non piu' ancorato al testo della decisione, ma
rifento a tutti i dati processuali.
    E'  da  escludere comunque un controllo di merito in via generale
per  le  sentenze  di proscioglimento, posto che non tutti gli errori
contenuti  nella  sentenza  potranno  rientrare  in una delle ipotesi
enunciate nell'art. 606 c.p.p.
    Non  e'  chi  non  veda  in  un  sistema  di tal fatta una palese
irragionevolezza  rappresentata,  oltre  che  da una ingiustificabile
estensione  dei  poteri  valutativi  della  Cassazione  con correlata
indeterminatezza  dei  criteri cui dovra' essere informato il ricorso
per  cassazione,  rimessi  esclusivamente al giudice di legittimita',
anche  da un possibile, quanto ingiustificato, allungamento dei tempi
di definizione del processo.
      Del  resto  proprio  su  tali  punti  si  e', ancora una volta,
incentrato  il messaggio del Capo dello Stato in sede di rinvio della
legge  alle  Camere  che,  tuttavia, sembra essere stato ignorato dal
legislatore.
    Profili  di  incostituzionalita'  sono,  ancora, rinvenibili, per
quanto  rileva  in  questa  sede,  nell'art. 10 della nuova legge che
regola la disciplina transitoria.
      Premesso  che con tale disciplina si e' di fatto verificata una
sostanziale abrogazione ex lege di tutti gli appelli proposti al p.m.
avverso  le  sentenze  di  proscioglimento  deliberate nell'ambito di
processi  pendenti  alla  data  di  entrata in vigore della legge, la
norma in esame appare, anzitutto, confliggere con l'art. 97 Cost., in
quanto  il  rispetto  del  principio di buon andamento dell'attivita'
giudiziaria   avrebbe  dovuto  imporre  la  previsione  di  norme  di
salvaguardia  delle  attivita' processuali compiute dalle parti prima
dell'entrata   in   vigore  della  legge,  per  evitare  il  collasso
dell'intero sistema processuale.
    Ancora piu' grave appare l'inconciliabilita' della norma rispetto
al    principio   costituzionalmente   garantito   all'art. 3   della
ragionevolezza,  essendo  indiscutibile  un effetto retroattivo della
legge processuale.
    E,  seppure  va rimarcata la possibilita' ex art. 25 Cost. di una
retroattivita'  delle  dette  norme,  esclusa  invece per le norme di
diritto  penale  sostanziale, e' comunque innegabile una interferenza
diretta  delle  leggi retroattive sull'attivita' giurisdizionale, che
esige   la   ragionevolezza   della  retroattivita',  certamente  non
assicurata  laddove la scelta legislativa che sta alla base non abbia
alcuna plausibile ragione giustificatrice;
    Non  solo  non  e'  dato rinvenire alcuna plausibile ragione alla
base  ditale  scelta,  ma - come affermato nella sentenza n. 525/2000
della  Corte costituzionale - anche nella materia processuale vale la
regola  della  tutela  dell'affidamento,  la quale esige che le parti
conoscano il momento in cui sorgono oneri con effetti pregiudizievoli
e,  ancor  piu',  confidino nello svolgimento del giudizio secondo le
regole vigenti all'epoca del compimento degli atti processuali.
    In ultima analisi, il mutamento improvviso della disciplina per i
processi  in  corso,  senza  alcuna  garanzia,  di  tipo  intermedio,
dell'effetto  conservativo,  anche per consentire un'entrata a regime
della legge, appare del tutto priva di giustificazione logica.
    Si tratta, ancora una volta, di uno scardinamento del sistema che
urta  contro  diversi  principi  di  rango  costituzionale  e  che il
legislatore  ha  mostrato  di  voler evitare anche per la materia del
diritto  penale  sostanziale,  nonostante la copertura costituzionale
dell'art. 25,  secondo  comma  Cost.,  in  materia  di  mutamento dei
termini  di  prescrizione  dei  reati,  prevedendo opportunamente una
«moratoria»  per  i  processi  in corso il cui dibattimento sia stato
aperto in primo grado.
    A  conclusioni  non  dissimili  sul  piano  della  compatibilita'
costituzionale  deve  giungersi  con  riferimento  al contenuto dell'
art. 10, comma 2 della legge in esame che prevede la pronuncia di una
ordinanza  non  impugnabile di inammissibilita' dell'appello proposto
dal   p.m.  avverso  la  sentenza  di  proscioglimento:  avendo  tale
ordinanza - per il suo contenuto definitorio - natura di sentenza, va
riconosciuto   il   potere  di  ricorrere  per  Cassazione,  pena  la
violazione,  per  un verso, dell'art. 111, settimo comma Cost. e, per
altro verso, dell'art. 3 Cost. sotto l'aspetto della irragionevolezza
della norma che sconvolgerebbe l'intero sistema delle impugnazioni.